Critica

Fedele al “verosimile”

Rossana Cheli

Inverni è un pittore contemporaneo che colloco in un contesto artistico difficilmente interpretabile. La sua chiave di lettura facile ed immediata trova poco spazio in un tempo complesso come quello in cui si trova oggi l’arte contemporanea.

Da una parte ci sono artisti ispirati dal modernismo, dalla sperimentazione estrema e dalla contemporaneità computerizzata delle foto i quali creano opere “seriali”,  dall’altra ci sono i “nostalgici”, ancora ispirati dal ritrovamento dei vecchi materiali, dai ritrattisti, dagl’iperrealisti e da coloro che ancora amano fare pittura di “tradizione”. Colloco Inverni tra quest’ultimi citati perché, anche se è cambiato nella sua evoluzione artistica, non ha mai abbandonato il suo “fare” pittura per qualcosa di più tecnologico, basti pensare alla folle riproduzione di copie antiche. Basterebbe semplicemente incollare o far stampare su tela le riproduzioni fedeli per poi intervenirci sopra, invece no, Inverni le copia direttamente sulla tela , come nel caso del dipinto “Tondo Doni” o di quello “La Gioconda”, e le impacchetta con un minuzioso e isterico trompe l’oeil. Un ritorno al classico, una provocazione che impone una domanda all’interlocutore sul fine dell’arte. Il ritorno di Inverni al classico non è ambiguo nell’espressione ma è misurato, semplice e chiaro fatto di esercizio di traduzione dell’antico allo scopo di elevare il buon gusto; per questo a volte è difficile la lettura della sua opera quando in realtà essa è tutta lì, davanti ai nostri occhi, senza mezzi termini o significati nascosti.

Inverni interpreta questa crisi dell’arte non necessariamente con  animo tormentato e con tragiche tematiche ma la impacchetta per forzare il diritto ad essere guardata e a non essere confusa tra un ” Donatello e un Michelangelo”. In questo contesto il pittore accentua ed enfatizza la precarietà dell’arte,  riproduce le opere mantenendo le stesse dimensioni di quelle originali e in modo sarcastico ci scherza sopra come nel caso del “Ritratto di Angelo Doni”: davvero sotto la carta dipinta ci sarà il ritratto? Son solo le misure del quadro che ci danno un indizio, il resto è lasciato alla nostra immaginazione, con un minimo senso di malinconia che nelle opere di Inverni non manca mai.

Egli non ama riprodurre il vero con freddo iperrealismo ma è fedele al “verosimile”, quindi non dà spazio alla freddezza fotografica dipinta, ma difende la manualità, la fantasia e l’immaginazione. Autore estremamente razionale dà il compito alla ragione di guidare la fantasia con naturalezza senza cadere nell’assurdo della difficile lettura, senza rinunciare alla poesia anche a quella ispirata da una semplice bandiera, ricordo del suo sogno americano.

La sua certezza è nell’incertezza delle cose e nell’instabilità del reale. Non si sa dove siano appoggiati i suoi cartoni o perché siano lì, non si sa neppure da dove vengano, a volte sono “prodotti in Italia” (made in italy) o legati nella loro instabilità dallo scotch “fragile” oppure sono strappati e corrosi dal tempo, dal sole, dalla pioggia, abbandonati ma poetici, fatti per ognuno di noi e vissuti in ogni loro aspetto.

Nei cartoni di Inverni il disegno è sostituito dal bel colore, dalla riproduzione fedele di ogni piega o strappo. Non c’è, come ho già detto, un senso ambiguo di lettura nelle sue opere ma sono lì per tutti, per ricordarci che una piega su un foglio non è solo quello, ma è “riflessione” nel guardarla. Non sappiamo neppure perché i suoi fogli siano “metafisicamente” attaccati su delle tele, insolita collocazione del reale, potrebbero essere su delle bacheche, su dei muri o su dei piani del tutto “normali” per il nostro ordinario ricordo; Inverni invece, da maestro quale si dimostra, li dipinge lì sopra, cura ogni ombra, ogni piega che con la sua morbidezza ci calma piacevolmente. Più guardiamo i suoi dipinti e più rimaniamo affascinati dalla nostra confusione di sentimenti che passano dall’entusiasmo alla meraviglia, dallo stupore ad un senso quasi di fastidio. Ci sentiamo osservati, ci guardano sono fogli che ci spogliano dentro. La loro “non parola” ha in sé la precarietà dell’uomo nel senso più intimo e antropologico dell’infantile essenza filosofica.